ECCO PERCHE' NON SCRIVO SUL GIORNALE DIOCESANO...

18.07.2014 15:31

Condivido con piacere con “Chiesa Controcorrente” due articoli inviati tempo fa, al giornale diocesano. Il primo mi fu richiesto prima della mia ordinazione diaconale, ed il secondo per la presentazione di un progetto poi adattato dalla Caritas, denominato “San Martino”.

Il primo articolo esprimeva il mio stato d’animo di quel momento e sintetizzava la mia vocazione. Fui contattato dal responsabile ecclesiastico del giornale, (leggesi censore), canonico della cattedrale, pluri-incaricato della diocesi e componente del consiglio episcopale cioè stretto collaboratore del vescovo, che in sintesi mi disse, che alla gente, (i lettori del suo giornale), riguardo alla mia persona erano interessati al gossip, il pettegolezzo, cioè vedovanza e la condizione dei miei figli rimasti orfani. Cattivo gusto, carenza di sensibilità, di educazione e di etica e totale mancanza del senso umano e cristiano della vita che per un prete è gravissimo.

Il secondo articolo è stato giudicato, sempre dal responsabile ecclesiastico del giornale, “troppo lungo, perché la gente non legge articoli così lunghi”. A questo punto mi chiedo quale considerazione ha dei suoi lettori il giovane rampollo del palazzo vescovile; dalle sue dichiarazioni dimostra scarsa considerazione anzi scarsissima del suo pubblico, forse per il fatto che il maggior contribuente del giornale non sono tanto i lettori ma la presidenza della repubblica con il suo contributo, che è uno dei tanti privilegi che il mondo ecclesiastico gode a dispetto di altre testate locali. Ciò che conteneva l’articolo, cioè la descrizione del progetto S. Martino di fatto non interessava all’alta gerarchia diocesana, ma d’altra parte era già stato benedetto da sua eccellenza con: “…fate ma, non chiedete soldi…”, come appunto scriveva don Ferraris “se possederete la carità, manifesterete il Signore”

 

"PER RACCONTARE L'ORIGINE DELL'INVITO CHE DIO MI HA RIVOLTO, DEVO SVELARE..."

Per raccontare l’origine dell’invito che Dio mi ha rivolto a seguirlo,devo svelare e violare la mia intimità, entrare nel profondo di me stesso,devo spogliarmi ; lo faccio volentieri,non ho più segreti da anni, da tanto tempo .

Il Signore ha posto sul mio cammino dei segni, con gli anni mi ha preparato, affinato,educato con la Sua sapienza a riconoscerli ,rispettando i miei tempi e la mia libertà .

Nel corso della mia vita ho assistito direttamente alla morte di 4 persone,3 quando avevo 20 anni e a 40  ho accompagnato gli ultimi istanti della vita della mia sposa ; è nata al cielo dopo 5 anni di malattia era il 1° maggio 1999, aveva 37 anni .

Ma come si muore ?

Matteo scrive : “ Emise lo spirito” ; Marco e Luca scrivono : “ Spirò “ mentre Giovanni, da sotto la croce,facendone quindi esperienza diretta, annota “ Chinato il capo spirò “ . Così si muore !

Spesso rivivo quegli ultimi attimi in cui cercavo di vedere dove andava,quale direzione prendeva quell’ultimo respiro .

Ad ottobre del 1999,a 5 mesi da quel 1° maggio, ho sognato la mia sposa Anna ,era bella, composta, mi ha dettato questa frase : “ Ho amato te solo per stare con te sola,me ne sono andata sola per stare con te solo “ .

I sogni nella Sacra Scrittura, sono modi scelti da Dio per parlare o incontrare l’uomo, ne hanno fatto esperienza e lo hanno raccontato i Profeti nell’Antico Testamento e Giuseppe nel Nuovo .

A 35 anni ho visto la madre dei mie tre figli ammalarsi,ho provato dolore e impotenza ,ho osservato il dolore e la dignità di un essere umano che declina , ma ho capito che non c’è declino nel dolore e nell’ impotenza se si guarda oltre ; se si trasfigurano ,dolore e impotenza divengono mezzi con cui il Signore prepara un’anima la purifica,l’affina . Si legge nel libro di Giuditta : “ Tutti quelli che piacquero a Dio furono provati con molte tribolazioni …… “.

Insieme,in quel tempo, abbiamo sperato,pregato, la fede ci ha tenuti saldi,uniti, ci ha preparato a trasfigurare il tempo : da tempo di condivisione a tempo di ricongiunzione .

Negli ultimi istanti della sua vita ho udito e colto la più alta forma di poesia,di intima espressione nella esclamazione : “ Avrei tanto voluto guarire !” ,così ha saputo sintetizzare in un verso ,(4 parole ), l’intensità e la bellezza della vita terrena .

Attraverso la frase : “ Ho sete !” ,negli ultimi istanti della sua vita ,ho fatto esperienza del Cristo agonizzante sulla croce .

Dopo avere chiesto ed ottenuto i Sacramenti della Riconciliazione,della SS Eucarestia e dell’Unzione degli Infermi,ha preparato la sua funzione funebre ,( per lei giorno di festa, della sua nascita al cielo ) ,scegliendo i canti,il celebrante, le letture ed i  lettori, il Vangelo ( il passo della Resurrezione di Lazzaro,specificando che voleva fosse letta la versione lunga),ha voluto che durante la S. Messa fosse recitata la professione di fede,ha scelto il luogo della sua sepoltura,gli abiti con cui voleva lasciare questo mondo,chi doveva portare il suo feretro, ci ha lasciato da meditare la frase di Giovanni : “ Hai tanto amato il mondo o Padre,da dare il tuo unigenito Figlio perché chi crede in Lui non muoia,ma abbia la vita eterna “.

Grandi sono stati per me i doni del Signore ,la gioia di amare ,di essere amato e di amare ancora,il libro del Cantico dei Cantici sentenzia : “ Le grandi acque non possono spegnere l’amore,né i fiumi travolgerlo “. Il Signore inoltre mi ha donato la gioia della famiglia,il tempo per crescere i miei tre figli, il lavoro che vivo come mezzo, come strumento ma non come fattore di realizzazione . Mi sono realizzato nella solitudine,che è intima relazione con Dio, Dio che Paolo indica così : “ Tutto posso in chi mi dà la forza “.

Nei suoi doni, Dio mi ha fatto vivere la morte che in Lui ha senso,trasfigurata ,in Lui diviene dono . Don Divo Barsotti , mistico fiorentino che ha ,per anni ,soggiornato nella nostra terra e che qui ha lasciato una comunità di monaci, scrive che S.Francesco lodava la morte stessa come messaggera di Dio,come manifestazione della sua divina bontà . “ E’ nella morte che S.Francesco lo vede, è a Lui che si rivolge : << Laudato sii tu mio Signore per sora nostra morte corporale >>.

Ho intuito subito , e gli anni lo hanno confermato ,che tanto avevo ricevuto e che tanto dovevo restituire ; e cosa ho di più grande da dare se non la vita ,( il bene più prezioso), e donarla a Dio che mi ha voluto e mi ha guidato . Scrive Giovanni nella sua prima lettera : “ Egli ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli “.

Sarò diacono transeunte il 25 giugno,poi il prossimo anno, se Dio vorrà,sarò prete .

Tutto è divenire,tutto si trasforma e tutto si trasfigura nella visione cristiana, così la vita deve essere sempre pronta a cambiare in ogni momento quando è il momento .

Dalla mia ?

La forza che viene da Dio , la sua Grazia ,ricevuta nel Battesimo e animata dalla preghiera personale e dai sacramenti ; poi c’è il conforto dei miei tre figli ,l’aiuto del popolo di Dio e l’intercessione della mia sposa eterna .

Andrea Giordano

 

 

 

“… Allora senza sapere il perché le genti si convertiranno, cambieranno e riceveranno lo Spirito Santo ancora una volta”

Condividere una piccola parte del proprio reddito (2%) per costituire un fondo che ha lo scopo di finanziare attività sul nostro territorio, per creare posti di lavoro, questo in sintesi l’oggetto del progetto San Martino. La cifra è indicativa infatti come ci ricorda  san Paolo : “ Ciascuno dia quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia” (2 Cor 8,7). Il nostro dare sia “ come una vera offerta e non come una grettezza” (2Cor 9,5).  “… Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli (catechesi), nello spezzare del pane (Eucarestia), e nella preghiera … Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune, vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno (condivisione). Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case,(chiesa domestica), prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore e lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati ” (At 2, 42-47). Questa non era solo la condizione della prima comunità di Gerusalemme, infatti nel secolo successivo Tertulliano scrive nel suo Apologetico: “Noi viviamo nella più perfetta comunanza di desideri e di affetti, e non abbiamo ritegno alcuno a considerare in comune tutto quello che possediamo. Tutto è diviso presso di noi, salvo la donna che è nostra. Sul punto del matrimonio infrangiamo il principio della comunanza.” La condivisione dei beni quindi ha finalità morale (giustizia sociale) e ascetica (non attaccare il cuore ai beni materiali) ed è espressione di una vita comunitaria intensa, basata su forti rapporti fraterni senza distinzioni di classe e alimentata dalla preghiera comune, dall’Eucarestia e dalla lettura comune della Scrittura. La condivisione dà la vita, è per la vita, è vita. Il fine di questo progetto (condivisione), non è un’iniziativa, né una raccolta fondi, ma come c’insegna la Parola di Dio riportata poco sopra, è un pressante invito, tanto quanto la preghiera e l’Eucarestia. E’ quindi come l’Eucarestia un rendimento di grazie al Signore, la condivisione dei beni è un atto di consacrazione. E’ un conformarsi a Cristo, è un cammino di conversione, cambiare direzione, quindi mentalità, è non conformarsi alla mentalità di questo secolo e di quelli passati e quelli che verranno, è scoprire o riscoprire l’entusiasmo della prima comunità cristiana. Cesario di Arles nei suoi discorsi pone questa domanda, alla quale noi come cristiani siamo tenuti a dare una risposta:” E chi siamo noi che quando Dio dona vogliamo ricevere e quando chiede non vogliamo dare?”. Così, attraverso la beneficienza e la comunione dei beni, siamo associati al sacrificio eucaristico di Cristo come ci ricorda la Lettera agli Ebrei : “Non dimenticatevi della beneficienza e della comunione dei beni perché di tali sacrifici il Signore si compiace” (Eb 13,16). Questa parola di Dio c’insegna che la beneficienza e la comunione dei beni non sono la stessa realtà, ma che entrambe sono richieste dal Signore. Quindi una non esclude l’altra. San Giovanni Crisostomo indica che vi sono cinque vie di riconciliazione con Dio: la condanna dei propri peccati, il perdono delle offese, la preghiera, l’umiltà, l’elemosina; intendendo per elemosina la distribuzione del denaro, dove la povertà di chi fa beneficienza non è d’impedimento, lo dimostra la vedova del Vangelo che offrì le due monetine ( Lc 21, 1-4). Paolo scrivendo alla comunità di Corinto ricorda che la colletta è fare uguaglianza: “Non si tratta infatti di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza” (2 Cor 8,13). In fondo i beni dati, la ricchezza data, condivisa non è persa, resta sempre, è data per sempre, non si perde la paternità di essa, è solo trasferita a… E fa unione, unione con…, E resta sempre di chi la produce , sempre con l’aiuto di Dio. Come indicano gli Atti degli Apostoli verso la fine del capitolo quarto: “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune”. (At 4,32) Quindi fare comunione è essere un cuor solo e un’anima sola, unione sponsale, unione quindi che genera vita. In un mondo ormai divenuto sterile, che ripete se stesso senza novità, i cristiani sono chiamati ad essere fecondi, fonte di vita, testimoni della Vita che è Cristo, che “è venuto perché  abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” ( Gv 10,10). Questo per noi è fare fatti, fatti sono queste idee, questo progetto, Gesù lo si incontra nei fatti, perché altrimenti non avrebbe condiviso con noi l’esperienza umana, non si sarebbe incarnato. Nostro scopo è sforzarsi di far crescere e vedere crescere questi fatti per la gloria di Dio; questo progetto dev’essere una città nuova aperta al futuro quindi alla speranza, fondato sulla preghiera che è intimità con Dio. Dobbiamo però capire che in questo cammino è importante: “Rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22,21). In genere questa frase viene interpretata come un riconoscimento da parte di Gesù dei poteri statuali, invece noi la interpretiamo come dare a Dio la gloria e all’uomo l’amore, con ciò affermiamo che non dobbiamo fare politica! La politica oggi infatti è intesa come: schierarsi per convenienza, urlare, accusare, imporre le proprie opinioni personali, cercare con ogni mezzo il consenso. Testimoniare Gesù Cristo: questa è la nostra politica, come la viveva Giorgio La Pira (sindaco della città di Firenze), politica intesa come azione per il bene comune della polis, da questo ci riconosceranno come cristiani. Dobbiamo quindi vivere una vita vera, agire,cioè contrastare per fuggire la logica del mondo; è questo il modo per fuggire la “ normalità “, per testimoniare la nostra diversità di cristiani. Siamo ben consapevoli della difficoltà, della fatica di essere testimoni, ma facciamo nostre le parole di Pietro quando invitato da Gesù a gettare le reti, dopo una notte di pesca infruttuosa dice:“Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti” (Lc5,5). Circa le difficoltà che sicuramente s’incontreranno possiamo dire che nell’impossibilità c’è la grazia e la presenza del Signore, questo deve essere di stimolo nell’affrontare qualsiasi genere di difficoltà. L’impossibilità ci spinge, ci sfida ad andare oltre. Se nell’impossibile c’è la presenza di Dio allora c’è anche il suo Regno, come risponde nell’annunciazione l’angelo a Maria: “Nulla è impossibile a Dio”. “E’ forse il consenso degli uomini che cerco oppure quello di Dio? O cerco di piacere agli uomini? Se cercassi ancora di piacere agli uomini non sarei servitore di Cristo” (Gal 1,10). Quindi i risultati  non devono essere presi in considerazione, i risulti non ci appartengono, appartengono a Lui, noi siamo solo umili servitori. A noi è chiesto di gettare le nostre preoccupazioni in Dio, è Lui che se ne prende cura, Dio ci chiede questo atto di fede, lasciare fare a Lui, ed è in questo che consiste la nostra umiltà, nel riconoscere che è Dio a fare e non noi. Siamo amministratori, oggetti non soggetti. “Sicchè, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio che fa crescere… Siamo infatti collaboratori di Dio”. (1Cor 3,7-9). E’ questa la  prospettiva del progetto, una prospettiva di fede, non una prospettiva puramente umana. Ricordandoci però che: “Colui che dà il seme al seminatore e il pane per il nutrimento, darà e moltiplicherà anche la vostra semente e farà crescere i frutti della vostra giustizia” (2 Cor 9,10). Non ci attendiamo il successo delle masse, ma una scelta meditata, ponderata,interiorizzata attraverso la preghiera, quindi una risposta positiva ad una chiamata, un’elezione da parte di Dio “Perché molti sono i chiamati, ma pochi eletti” (Mt 22,14). Come dice il Signore attraversi il profeta  Michea:  “Degli zoppi io farò un resto dei lontani una nazione forte” (Michea 4,7). Infine ci auspichiamo che anche attraverso questo progetto, si avverino le parole profetiche di don Ferraris: “ Andremo sempre più in giù fino al momento in cui ci sarà un gruppo di uomini che vivono intensamente la vita interiore (intendendo con questo la preghiera, la frazione del pane e la condivisione di beni) – quando nella nostra comunità cristiana ci sarà un nucleo che per convinzione, viva decisamente la propria vita cristiana – cerca gli aiuti indispensabili, la preghiera continua, i santi sacramenti, se è possibile la confessione frequente per la direzione spirituale, allora senza sapere il perché le genti si convertiranno, cambieranno e riceveranno lo Spirito Santo ancora una volta”. Il progetto è chiamato San Martino in riferimento al noto episodio della vita di questo santo. Quando Martino era ancora un militare, ebbe la visione che divenne l'episodio più narrato della sua vita. Si trovava alle porte della città di Amiens con i suoi soldati quando incontrò un mendicante seminudo. D'impulso tagliò in due il suo mantello militare e lo condivise con il mendicante. Quella notte sognò che Gesù si recava da lui e gli restituiva la metà di mantello che aveva condiviso. Udì Gesù dire ai suoi angeli: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito». Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro. Il mantello non solo lo copriva dal freddo, ma era la coperta per la notte, possiamo dire che era il suo “capitale” e Martino condivise al 50% (non al 2%) il suo capitale con il povero che incontrò. Singolare quanto si legge nel libro dell’Esodo: “Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso”. (Es 22, 25-26). In seguito a questo Martino si fece battezzare: è la sua risposta  alla chiamata di Cristo, da un atto di condivisione ha origine la sua vocazione, il suo credo. Così ogni cristiano deve rispondere positivamente alla sua chiamata, uno dei modi per rispondere è la condivisione dei beni o parte di essi. San Basilio Magno nelle sue Omelie scrive: “Largheggia con ciò che possiedi, sii generoso, anzi munifico, nell’affrontare spese a beneficio dei bisognosi”, “e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti” (Lc 14,14).                             

a quattro mani don Andrea Giordano e don Davide Bianchino