FRATELLANZA NON FRATERNITA’

24.02.2015 09:17

Rifletto sul salmo 132 di cui il papa nella consueta catechesi sulla famiglia ha trattato mercoledì scorso. La figura proposta è quella dei fratelli, dopo aver trattato il ruolo paterno, materno e filiale. La frase del salmo che il papa ha citato  nell’inizio della catechesi: “ Ecco com’è bello e come è dolce che i fratelli vivano insieme”. E’ vero, è bello e dolce, ma dev’esserci vita comune, quel viver insieme è la vita comune, cioè fare esperienza insieme che è proprio della vita famigliare; il legame famigliare è forte, bello e dolce quando si vive insieme, quando si condividono le stesse esperienze. Tutti ricordiamo i tempi passati in famiglia, tutti. Sono stato ripreso dal mio vescovo perché a sua detta, e ne sono convinti anche alcuni confratelli non vivo la fraternità sacerdotale, di cui il vescovo si vanta di vederla realizzata nel nostro clero, attraverso pranzi, viaggi, incontri conviviali, e su questo fonda la paternità episcopale. Ma se non c’è vita comune, se non c’è quel “vivono insieme” non c’è neppure il “ecco com’è bello e com’è dolce”, che il salmista canta”. Il vescovo da padre raduni i suoi preti (figli) e proponga, perché bello e dolce la vita comune, la convivenza; credo che il mio assenso a ciò sia il totale dissenso dei confratelli e dello stesso vescovo. Critiche sottobanco, non dirette, non esplicite, non scritte nero su bianco, non urlate come le mie, ma sussurrate alle orecchie della gente, dei fedeli, sibilline come il serpente nel giardino serpeggiano nei miei confronti e fanno del rapporto sbandierato ma effimero della fraternità sacerdotale il  rapporto tra Caino e Abele, di cui il santo padre, perché padre, tratta, e lo tratta non solo perché è menzionato nella Sacra Scrittura, ma perché è vero, reale, fa parte della realtà, è reale e veritiero, quanto non lo è la fraternità, figuriamoci la fraternità sacerdotale. Per quel poco che ho vissuto nel clero posso dirvi, invidia, superficialità, scarsa stima, pettegolezzo, luoghi comuni, rapporti di pura e sola convenienza, è ciò che emerge dagli incontri con i confratelli. Con pochi si riesce ad instaurare un rapporto profondo, duraturo e collaborativo, pochi; complice la totale mancanza di una formazione alla vita comunitaria, appunto come il salmista canta del legame fraterno. Ma l’importante è dare l’impressione che tutto vada bene, di quel volemose bene divenuto un leit motiv, così il clero può insegnare alla famiglia cos’è la famigliarità, ai padri che cos’è la paternità, alle madri che cos’è la maternità, e ai fratelli che cos’è la fraternità. Ai genitori come si educano i figli, insomma abbiamo sempre e solo da imparare da un clero che infondo è poco incline alla vita comune, alla famigliarità e alla fraternità, dunque hanno come riferimento non la figura di Dio ma quella paterna o quella del loro vescovo. C’è qualcosa che non torna e i fedeli lo capiscono, quando uno come me che pone molte domande, come ogni figlio curioso; che osserva attentamente, che è la caratteristica di ogni persona che ragiona; che dissente, che è segno espressamente evangelico, dunque controcorrente,  allora è messo fuori, è fuori, non entra, non dico nella fraternità, ma nella  fratellanza, che nelle carceri americane identifica i gruppi etnici chiusi, tanto che alcuni confratelli di me lavandosi pilatescamente le mani dicono proprio come riporta Genesi: “ sono forse io il custode di mio fratello?”