OLTRE LA FIGURA

01.03.2015 08:49

Tre sono i momenti che a mio avviso emergono nel brano del Vangelo di Marco appena proclamato: il primo è la trasfigurazione, cioè Gesù va oltre la figura, la sua figura, significa entrare, fare esperienza della vera realtà, di ciò che siamo e non per come appariamo. Quella luce che Gesù riflette è la capacità di vedere ogni cosa con gli occhi della fede, cioè di cogliere per ogni cosa la novità, la nuova visione; niente, nulla è come prima, tutto è rinnovato, diverso, ha senso agli occhi della fede, se trasfigurato. I tre testimoni, gli apostoli, i tre testimoni Pietro, Giovanni e Giacomo, per pigrizia mentale, limite, poca fede colgono solo l’apparenza del fenomeno, lo splendore delle vesti, non l’essenzialità, la divinità del Cristo, ciò che è, la sua natura divina. Per loro Gesù è come appare, colgono di lui solo la sua natura umana. Trasfigurare è dunque cogliere l’essenza delle cose, la loro vera natura, ciò che sono, per cosa sono state create. Gli apostoli dunque colgono solo la luce, come il popolo d’Israele coglie quel volto raggiante di Mosè quando scende dall’Oreb, Mosè irraggia luce. L’incontro con Dio è luce, chiarezza, comprensione, ma l’uomo non è preparato, non è pronto, tanto che Marco descrive gli apostoli spaventati. Andare oltre la figura significa entrare nell’altra dimensione, nell’oltre, superare i limiti, spingersi oltre l’umano, sconfinare dalla consuetudine e a riprova di ciò è la presenza di figure del passato: Elia e Mosè. Si è fuori dal tempo, si è nell’eternità, nel continuo presente dove mille anni sono come un solo giorno e un solo girono come mille anni. La percezione degli apostoli benchè spaventati è uno stare bene, benessere: è bello per noi stare qui” dice Pietro, sale dal cuore di Pietro. Segno dell’eternità, segno di uscire dalla figura, segno della trasfigurazione è lo star bene, pace. Quando le cose hanno un senso, quando vivo per ciò che sono e non per ciò che vorrei essere, quando sono vero, sono in pace, sto bene, godo del benessere. Oltre la figura c’è dunque l’essenza del creato, non ciò che appare ma ciò che è veramente, l’essenziale, l’armonia. Al pari degli apostoli ognuno di noi è portato sul monte; Pietro capo della Chiesa, e perché io non sono forse a capo della mia Chiesa domestica? Giacomo primo degli apostoli a morire martire, e perché io non sono forse chiamato a testimoniare con la mia vita la fede nel Cristo? Giovanni a cui ai piedi della croce gli è stata affidata la madre, non sono forse io parte di quell’umanità che Giovanni rappresenta alla quale è stata affidata la madre? Ora Paolo nella seconda lettura tratta dalla lettera ai Romani ci fa intendere che si è nella definitività, dunque oltre la figura, già nella vita eterna che ha inizio proprio qui su questa terra, e bene Dio non ha più bisogno di condannare, infatti Paolo esclama: “Dio è colui che giustifica”, e successivamente pone questa domanda:” chi condanna?” Fratelli cristiani è l’uomo stesso a condannarsi, qui nella precarietà con le sue stesse mani, perché non fa il passo verso l’oltre, non si lascia trasfigurare, cioè non vuole trasformare la precarietà nella definitività, non fa il salto nel vuoto, non si affida alla fede che è luce e saldo appiglio. L’uomo è dunque artefice e giudice delle sue scelte, lasciato libero di affidarsi a Dio che c’è o al caso che non c’è. Gli apostoli dunque colgono, percepiscono qualcosa, ma con i loro limiti, la loro fede solo proclamata, ma non vissuta, non interiorizzata, non vanno oltre, nell’oltre, non si lasciano trasfigurare, perché Dio non permette quel salto, quell’affidamento se non si è pronti. Lo stesso Mosè al cospetto di Dio nel racconto dell’esodo si vela. La troppa luce uccide non salva. Mi soffermo come secondo punto sulle figure di Elia e di Mosè, uomini di Dio, uomini scelti da Dio, uomini inviati da Dio per portare la sua Parola, cioè se stesso, come? Come scrive Isaia:” grida a squarciagola, non aver riguardo: alzo la voce come il corno, dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati”, questo fratelli cristiani è l’uomo di Dio, il profeta. Il profeta non è l’indovino, un ciarlatano, il profeta come Mosè ed Elia sfida l’autorità, senza seguaci, va al cospetto dei potenti per riprenderli alla luce della Parola. Il profeta è uomo che risponde ad una chiamata interiore, scomoda, pericolosa e riponendo in questa la sua totale fiducia: la fede. Il profeta non è la centro del clamore delle folle, non indossa una corona, o se la indossa è di spine e non preziosa, abbraccia e subisce la solitudine, la persecuzione, il pericolo, l’indifferenza e l’abbandono. Il profeta è uomo, provato, con larghe spalle che vive il disprezzo della sua gente, ed è disprezzato in patria. Di fronte al pericolo al costo di perdere la vita il profeta afferma la divinità di Dio, non ideali e condanna l’idolatria, oggi come ieri autoaffermazione dell’uomo attraverso le sue azioni: sesso, denaro, potere. E’ l’autorità che allontana da Dio, proponendo come idolo se stessa, il pericolo di ciò è di ogni autorità anche la Chiesa non ne è risparmiata, ecco perché il santo padre spinge in uscita la Chiesa, perché non abbia tempo, non si fermi , non si curvi su se stessa ad idolatrarsi, ma fuori trovi le motivazioni per sempre riformarsi, riconoscendosi inadatta, non degna, e bisognosa di un cammino. Ricordo ad ognuno di voi, me compreso, che con il battesimo siamo divenuti profeti, abbiamo ricevuto il dono della profezia, siamo dunque alla pari di Mosè e di Elia, esercitiamo dunque la dignità a cui siamo stati elevati. Il terzo punto che evidenzio fratelli cristiani è la nuvola. La nuvola è la presenza di Dio, la sua ombra copre, avvolge, ingloba. La stessa Maria è coperta dall’ombra, nascosta alla vista, preservata, protetta, riparata, conservata, fecondata. Il popolo d’Israele è guidato, protetto e salvato da una nube, la nube entra nella tenda del convegno. La nube è nel cielo, è in alto, è sulla cima del monte, da essa scrive Marco esce una voce, la stessa e le stesse parole che si sono udite durante il battesimo di Gesù. Quella nube è la stessa che arriva da lontano, dal mare, attesa dal profeta Elia e che pone fine alla siccità, cioè è portatrice di vita. La nube che per noi oggi è segno di tempo cattivo, di pericolo, trasfigurata, nell’oltre a ciò che appare, è segno e presenza di Dio, un Dio che sale con me sul monte per svelarsi, cioè per togliere quei veli che lo ricoprono, per farsi vedere, per com’è nel suo totale splendore, come lo sposo per la sposa, e la sposa per lo sposo, perché lo svelarsi è segno di disponibilità, di amore, di rapporto, Dio si denuda davanti all’uomo, non ha per lui segreti, né prova vergogna; l’uomo nel giardino prova vergogna per la sua nudità, Dio non si nasconde, cerca, l’uomo si nasconde, si fa cercare. Dio mi porta sul monte perché faccia esperienza della luce e perché il mio sguardo vada lontano, si perda oltre l’orizzonte, esplori l’infinito, cioè ciò che c’è oltre il finito.