PER UNA SANA MORALE CATTOLICA: SUBITO CONVIVENZA, COMUNANZA, COMUNE, COMUNITA'!
Fratelli l’evangelista Marco ci spinge a riflettere sulla parola “subito” nel racconto scritto di suo pugno. L’avverbio viene usato due volte dall’autore del racconto che noi per fede sappiamo essere Dio stesso. Il primo uso è riferito ai discepoli Andrea e Simone, fratelli, poi divenuti apostoli: “e subito lasciarono le reti e lo seguirono”. Il secondo è attribuito a Gesù stesso, al Signore, “e subito li chiamò”, riferendosi ad altri due discepoli divenuti anch’essi apostoli, e anch’essi fratelli, Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo. L’avverbio è legato al tempo, quel subito indica all’istante, immediatamente, l’immediatezza, non certo la mediazione, cioè l’uso di più tempo. Gesù alla vista di Simone e Andrea nell’atto di gettare le reti l’invita ad essere seguito, e Simone e Andrea rispondono con un atto, lo seguono, non proferendo parola. All’invito fa seguito l’azione, quasi in assenza di tempo, nel tempo sì, ma non c’è tempo né di pensare né di reagire verbalmente: seguono il Cristo tacendo. Gesù scatena, scatena in essi un processo trasformante nell’essere, non nella sostanza, e mi spiego: restano pescatori in sostanza, ma ciò che cambia è la loro essenza, il loro modo di essere pescatori, e cambia la natura del pescato, di ciò che pescano. Ma voglio tornare all’avverbio: subito. Dunque l’uomo, l’umano è legato all’istante, ad una piccola frazione di tempo che trasforma. C’è l’istante in cui sono stato concepito, l’istante in cui apro gli occhia alla vita, l’istante in cui li chiudo per aprirli all’altra vita, l’istante in cui amo per sempre; frazioni di tempo, istanti in cui vivo intensamente, che ne sia cosciente o non cosciente, quegl’istanti sono parti di me, mi segnano, mi caratterizzano. Non ricordo l’istante del mio concepimento, né quando ho aperto gli occhi alla vita, ma ne sono la conseguenza e non ho ancor vissuto l’istante in cui li chiuderò a questo mondo, ma è pensiero che mi accompagna in un crescendo d’intensità che educa la mia maturità, è cioè parte della mia esistenza, della mia essenza, del mio modo di essere che mi condiziona, è condizione. Quell’avverbio, dunque quel subito, quell’istante mi condiziona, è condizione. Quando vivo l’istante in cui m’innamoro e ne sono corrisposto (istante che non si ripeterà più, come d’altra parte gli altri), cambia la mia condizione e si trasforma in altra condizione. Ciò che avviene nella vita dei cinque personaggi del racconto di Marco è dunque il passaggio da una condizione ad un’altra. Quell’incontro, quell’innamoramento, quella definitività, quel per sempre, cioè nel tempo e nel fuori del tempo, vissuto in un istante, è ben diverso dagli altri attimi d’inizio e fine vita. Quel subito è totalmente mio, è scelto, è sì un condizionamento, ma totalmente scelto, liberamente scelto. E’ condizionante, perché seguire e il farsi seguire impone regole, regole inscritte nel cuore, nella volontà, nella coscienza. Tocca quel condizionamento la parte più intima, l’invisibile, il mistero. Dio accetta la coabitazione con l’uomo per l’uomo stesso. Con l’umanità, assumendo l’umanità, attraverso l’incarnazione, Dio vive con l’uomo uno stato di convivenza, vive la convivenza, spesso vituperata, guardata con sospetto da una falsa morale. Gesù vive con altri, e altri vivono con lui, formano una comunità in cui condividono tutto il condivisibile nel rispetto delle coscienze. In quella che di fatto è una comunanza, (come la definisce Tertulliano), una comune, si vive la mutualità di diritti e di doveri. Nell’Apologeticum Tertulliano nel secondo secolo (il primo secolo dopo Cristo), descrive la comunanza, esperienza tratta dall’esempio della primissima comunità cristiana, quella apostolica, dove è vissuta la comunanza, non la promiscuità, c’è cioè ordine, distinzione e non confusione. Quel subito è dunque atto bilaterale che unisce intimamente la parti, Dio e l’uomo, l’umano e il divino, in una comunanza, in una comunità, e che si estenderà ad un popolo, assumerà le dimensioni di un popolo, il Santo Popolo di Dio,( noi fratelli cristiani), che non ha limiti, né confini, né tempo. La vita comunitaria, la comunanza è vita oblativa, cioè è per l’altro, è donazione all’altro di ciò che sono e di ciò che ho. L’invito insinuato nell’intimità, genera l’istante, la risposta, il subito; fondante dunque dell’intimità è l’invito che proviene dal divino. Il subito, l’azione che consegue all’invito del divino proviene dall’intuito, da quella curiosità intelligente, dalla coscienza viva che coglie e spinge là, dunque mette in moto il lucido ragionamento che crea stabilità, per potere poi aderire liberamente. Prima viene il subito, l’intuito, la scintilla, l’innamoramento, che è l’irrazionale del razionale. La fede è dunque figlia di quel subito, dell’intuito, figlia dell’irrazionalità, ma conseguenza del razionale, del pensato, è da pensare, ragionare. Amare dunque amore: prima l’azione, la disponibilità, sapersi mettere a disposizione di persona: “eccomi” è la risposta, la disponibilità di Maria, immediata, non mediata, subito; poi la razionalità, la mediazione, il lavoro interiore:” Maria meditava tutte queste cose nel suo cuore”. Siamo cristiani di seria a o di serie b? Quel subito legato al tempo è del tempo? E’ mondano? Non ci sono categorie, né tempo, o tempi, nel vivere la vita cristiana, quel subito è trasformante, è per quando sono pronto a vivere. Non c’è il cristiano della prima ora, c’è il cristiano, non c’è una scala temporale o di merito, non c’è mondanità nel rapporto con il divino, con Dio, c’è quell’istante, il mio istante. Concludo leggendovi una frase ricavata dall’unione di parti delle tre letture di questa domenica del tempo ordinario: “ e subito li chiamò<< alzati va e annuncia: il tempo si è fatto breve, il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo>> e subito lasciarono le reti e lo seguirono”. E’ per noi fratelli cristiani, è l’invio perché il tempo si è fatto breve, è compiuto, è l’istante, il subito.